SENECA NELLA COSCIENZA DELL’EUROPA

Abstracts

 

M.G. Blasio, Disciplina del corpo, disciplina dell’anima: letture umanistiche di Seneca

Bartolomeo Platina, figura di spicco dell’umanesimo romano del secondo Quattrocento, giunse a Roma probabilmente nel 1462, a seguito della norma cardinalizia di Francesco Gonzaga che era stato suo allievo a Mantova. Legato alla cerchia dei più stretti collaboratori di Pio II (il Gonzaga, Iacopo Ammannati Piccolomini, il Bessarione) Platina si trovò direttamente coinvolto nel conflitto che, alla morte di Pio II nel 1464, vide opposto il gruppo dei cardinali pieschi al nuovo pontefice Paolo II Barbo. Platina perse l’ufficio di abbreviatore e per la sua dura protesta venne incarcerato nel 1464 con l’accusa di lesa maestà e poi ancora nel 1468, questa volta perché coinvolto, insieme al gruppo degli accademici romani che si raccoglieva intorno a Pomponio Leto, in una congiura probabilmente imbastita contro Paolo II; ed in questa occasione vennero anche addebitate al Platina e agli altri umanisti eresie che si vollero di matrice epicurea. Con lo sfondo di queste vicende Platina avviò una intensa produzione letteraria nella quale intese la materia autobiografica come perentoria occasione di confronto sui valori della società che egli aveva di fronte ed in essa rivendicare una propria identità culturale e politica. Nascevano così alcuni scritti fortemente coesi che, seppure a volte stratificati dall’autore in diverse redazioni, tracciano un coerente percorso ideologico: il dialogo De falso et vero bono (elaborato in prima stesura nella prigionia del 1464 con il titolo De falso ac vero bono), il Contra amores (prima intitolato De amore), il De honesta voluptate et valetudine), le lettere scritte e raccolte in epistolario durante la carcerazione del 1468. Platina propone, fra i temi dominanti, la difesa della cultura dell’antico nel solco della solidarietà fra studia humanitatis e studia divinitatis, fra cultura pagana e cultura cristiana, una questione che, alla radice del pensiero degli umanisti, era stata posta evidentemente in discussione come ricaduta degli avvenimenti cui si è fatto cenno. Nel De falso et vero bono, accanto alle opere filosofiche di Cicerone, è la progressiva acquisizione delle Epistulae morales ad Lucilium, corredate dal consueto apparato di sentenze desunte dalla vastissima letteratura circolante sotto il nome di Seneca, a fornire al Platina i materiali di una riflessione che inizia a concentrarsi su alcune tematiche: sul concetto di voluptas come voluptas animi, incardinato nella definizione dello statuto del letterato, sulla riaffermazione della dignità dell’otium, sul primato della filosofia rispetto alle altre discipline. Platina infittisce il recupero degli auctores attraverso un più ravvicinato confronto con la cultura contemporanea, da Valla al Filelfo al Bracciolini. Già nel De falso et vero bono Platina profila una complessa nozione della fisiologia umana, sollevando la questione degli scambi intercorrenti fra la mente e il corpo e della necessità di norme che regolino le scabrose interferenze della debolezza fisica, di quella fragilità spesso compagna ed artefice del lavoro intellettuale. Il tema intravisto nel dialogo costituisce l’oggetto del De honesta voluptate et valetudine, operetta di dietologia e culinaria, intessuta di considerazioni e precetti morali. Nella orgogliosa dedica al cardinale Domenico Roverella, Platina rivendica alla cultura sua e del suo ambiente, quello della sodalitas umanistica romana, non la primazia ma certo l’adesione al recupero del pensiero di Epicuro sulla scorta di Lucrezio, di Cicerone, di Seneca, di Diogene Laerzio. Lo stesso concetto di honesta voluptas rinvia agli snodi della X e XVIII epistola di Seneca e forse al De vita beata. Gli argomenti proposti nel De falso e nel De honesta voluptate sono esplicitamente intesi come un percorso terapeutico entro le malattie dell’animo e le debolezze del corpo; ancora un tratto caratteristico che vediamo legato soprattutto alla lettura delle lettere di Seneca, dove Platina poteva cogliere la coscienza, a volte drammatica, di quelle interferenze fra mente e corpo che in definitiva esigono il lavorio dell’esercizio filosofico e la pratica della temperanza, tradotti dall’umanista non in una vita ascetica bensì educata nell’umano consorzio di una collettività armonicamente fusa. Il modello letterario si rafforza, proprio su questa linea, nell’elaborazione delle lettere scritte durante la carcerazione del 1468-69: la sintassi retorica distribuisce e accumula una figura dominante. La catena delle metafore - malattia, salute, medicina - si ripete nella sequenza delle lettere aggregando argomenti e ragioni. E Seneca, insieme con Agostino, Girolamo, Paolo, è posto fra le auctoritates che scrissero de sedandis doloribus corporis et perturbationibus animi, un indizio, tra l’altro, dei testi che Platina poteva leggere ravvicinati nei manoscritti a lui disponibili.

W. Tega, Tra libero pensiero e dispotismo illuminato: Seneca e il XVIII secolo

La figura di Seneca ha avuto un ruolo rilevante nel pensiero morale e in quello politico del XVIII secolo. Da Lamettrie a Diderot la riflessione sulla felicità e quella sui rapporti tra il filosofo e il principe è ritornata di frequente sulle pagine senechiane. Il mio contributo si sofferma soprattutto sul secondo tema, quello che Diderot ha sviluppato nel Saggio sui regni di Claudio e di Nerone. Diderot inizia e conclude la sua riflessione su Seneca proprio negli anni nei quali entra definitivamente in crisi l’ipotesi politica del dispotismo riformatore. Fanno da sfondo al Saggio la conclusione della sua esperienza con Caterina di Russia, la morte di Voltaire, il fallimento del tentativo riformatore di Turgot. Avvenimenti che certamente non dovettero risultare estranei alle conclusioni tratte dal vecchio Diderot, tutte volte a salvare dal naufragio il filosofo, che, anche con suo personale rischio, aveva accettato di sobbarcarsi l’ingrato compito di limitare il peso della tirannia. Il filosofo, in conclusione, resta fedele al suo ruolo di amico dell’umanità, e per questo non può che plaudire - come appunto fa Diderot a conclusione della prima edizione del Saggio - agli insorti d’America.

G. Calboli, Lo stile di Seneca nel giudizio dei retori

Il giudizio di Quintiliano sullo stile di Seneca è stato considerato da molteplici punti di vista, ma è soprattutto quello del rapporto con l’Asianesimo e la tecnica oratoria che ci interessa. In effetti non ci sembra molto importante sapere quanta ostilità vi era fra i due, ma piuttosto quale visione Quintiliano aveva dello stile di Seneca rispetto all’ideale stilistico da lui concepito. Partendo da questa considerazione e dai lavori prodotti negli ultimi anni, e soprattutto da quello di Konrad Helmann, si cercherà di chiarire meglio il carattere e lo sviluppo dell’Asianesimo di tipo egesiano, considerando testimonianze antiche che sono state un po’ trascurate e altre che non si conoscevano fino ai giorni nostri. D’altra parte bisogna sottolineare anche il carattere tecnico di questo giudizio confrontando l’ingenium e l’ars secondo il modello utilizzato da Quintiliano e che risale sino al formalismo della critica degli antichi. Da questo punto di vista prenderemo in considerazione anche le interpretazioni moderne dello stile di Seneca, la vasta raccolta dei giudizi antichi che Winfried Trillitzsch ci ha fornito, e il suo contributo alla conoscenza della "Beweisführung" di Seneca. Si potrà allora vedere che lo stile ha giocato un ruolo considerevole per questa "Beweisführung", e non solamente in Seneca.

A. Pociña, Seneca e le sue opere nel teatro spagnolo del secolo XX

Precedenti lavori di Menéndez Pelayo, Blüher, così come miei, sembrano farci arrivare alla conclusione che l’influenza e l’impronta di Seneca in Spagna non è diversa né più importante né più brillante di quella esercitata dal filosofo in altri paesi dell’area europea. Partendo dunque da questa premessa, ci occuperemo in questa occasione dell’influenza di Seneca sul teatro spagnolo del XX secolo, ma trattando esclusivamente tre momenti così come si rispecchiano in tre importanti drammaturghi: Miguel de Unamuno, José María Pemán e Antonio Gala. Al principio del secolo, il grande pensatore e scrittore spagnolo Miguel de Unamuno, con la sua versione della Medea di Seneca (1933), ci offre l’esempio dell’influenza diretta e assoluta, consistente nella pura traduzione di una tragedia per la rappresentazione della stessa. Verso la metà del secolo José María Pemán, con il suo Tyestes (1955), ispirato all’omonima tragedia di Seneca, ma con un trattamento molto libero e particolare, ci presenta uno stupendo esempio della manipolazione di un dramma classico, dettato dai gusti e dalle idee della dittatura di Franco. Infine, con la sua opera Seneca o il beneficio del dubbio (1980), una delle figure più interessanti del teatro spagnolo contemporaneo, Antonio Gala, ci offre un modello completamente diverso dell’influenza di Seneca sul teatro attuale, consistente nel fare della vita e dell’opera dell’autore stesso l’argomento per la costruzione di un dramma.

G.C. Giardina, La riscoperta di Seneca tragico fra Quattrocento e Seicento

L’antichità ci ha tramandato attraverso il Medio Evo il corpus tragico di dieci drammi attribuiti a Seneca. La prima reviviscenza d’interessi attorno a questo corpus si ha col circolo preumanistico padovano di Lovato Lovati e Albertino Mussato. Nel Trecento, e poi dal Quattrocento al Seicento si conosce Seneca tragico in una recensio interpolata: solo nel 1661 il Gronovius riporta alla luce il migliore rappresentante della recensio genuina, il codice Etrusco. Il teatro di Seneca, a partire dall’Italia, venne messo in scena ripetutamente nel Rinascimento, prescindendo dal dubbio se esso fosse stato concepito per la scena o per una mera declamazione. L’Italia è al primo posto per quanto riguarda le traduzioni e le imitazioni da Seneca. Spicca nel 1560 la versione completa di Ludovico Dolce. Ma interessano anche quelle di Ettore Ninni, Pytio da Montevarchi, Emanuel Tesauro. Giraldi Cinthyo imita le tragedie. Anche in Francia si segnalano svariate traduzioni e le imitazioni di Corneille nella Medée e di Racine nella Fèdre, che rivaleggiano con gli originali. In Inghilterra, in pieno Cinquecento, vengono rappresentate le tragedie di Seneca in teatro, in latino prima e poi anche in inglese. Esse esercitano un potente influsso sulla drammaturgia elisabettiana, da Gorboduc alla Spanish Tragedy e, a quanto pare, anche su Shakespeare. In territorio germanico spicca il saggio di traduzione, del 1622, delle Troiane, per opera di Martin Opitz, che lo correda anche di note dotte e contenenti paralleli dalle opere filosofiche dello stesso Seneca e da altri autori classici. Nel 1661 viene alla luce il codice Etrusco, di età carolina, conservato alla Laurenziana di Firenze e ivi riscoperto dal Gronovius. Per avere un’edizione moderna e accettabile si deve attendere il 1878-79, quando esce quella di Friedrich Leo. Nel nostro secolo si segnala la recente edizione oxoniense di Otto Zwierlein.

E. Pasquini, Presenze di Seneca in Dante

Nonostante i contributi di filologi valentissimi (dai pionieri P. Toynbee ed E. Proto, E.G. Parodi, N. Zingarelli e S. Debenedetti, ai recentiores P. Renucci ed E. Paratore, G. Brugnoli e A. Traina, A. Ronconi e G. Mezzadroli), la questione dei rapporti fra Dante e Seneca resta ancora aperta, a cominciare dall’apparente contraddizione fra il "Seneca morale" di Inf. IV (calco del moriger Seneca di Arrigo da Settimello) e l’ut patet per Senecam in suis tragoediis dell’Epistola a Cangrande (almeno per chi crede nella sua, pur discussa, autenticità): affermazione, quest’ultima, difficilmente ammissibile in un Dante che non ne avesse almeno in parte una conoscenza diretta. D’altro canto, i presunti echi delle tragedie senecane nell’opera dantesca risultano ora poco consistenti, ora soppiantati da più forti concorrenti; né sembra di poter accedere qui all’opinione (più legittima nell’altro àmbito) di chi postula la mediazione di un qualche florilegio e giustifica la qualifica di "Seneca morale" presupponendo che Dante, pur a conoscenza (almeno attraverso Vincenzo di Beauvais) di una produzione tragica di Seneca, insomma dell’identità dei due pretesi omonimi, si attenesse a quella definizione per spirito di onestà, non avendo letto nessuna di quelle tragedie. Dunque, "morale" è Seneca come "satiro" è Orazio: privilegiandosi così il carattere dominante nell’uno e nell’altro autore. D’altronde, anche per "Seneca morale" il filologo si trova nella difficile situazione di chi deve optare fra la possibilità di codici parziali e quella di excerpta o di antologie; senza dire che la scommessa più rischiosa è quella che si gioca nella ‘partita doppia’ fra topica e intertestualità. Lo ha mostrato da par suo Alfonso Traina, approdando con grande avvedutezza all’ipotesi che almeno il proemio delle Naturales quaestiones debba considerarsi un vero ipotesto per Dante: proprio perché il microtesto si riverbera (e insieme trae significato) dal macrotesto, "l’aiuola" dal "che ci fa tanto feroci". Poco conta che egli abbia letto quelle pagine in un codice contenente più o meno l’intero testo, o più probabilmente le abbia raggiunte - data la loro palese esemplarità - sfruttando uno dei tanti florilegi di auctores. Anche alla luce delle ricerche della Mezzadroli, la conoscenza sostanziale delle Naturales quaestiones pare ormai acquisita, mentre affiorano altri possibili ipotesti senecani, spesso mediati da autori più a portata di mano per Dante (nel Convivio e nelle Epistole, ma soprattutto nel poema), come il Tresor di Brunetto Latini o il De consolatione philosophiae di Boezio. Alludiamo per esempio al De beneficiis (tra Conv. I viii e Par. XVII), alla Consolatio ad Helviam matrem (per l’Ep. XII) e alla Consolatio ad Marciam (per Purg. XI 100 ss.); o a certi luoghi di Seneca che funzionano in concorrenza con altri e forse più cogenti modelli, come avviene per l’invenzione del viaggio di Ulisse, dove Ep. LXXXVIII entra in corto circuito almeno col De finibus ciceroniano e con Orazio, con Virgilio commentato da Servio e con Boezio. Né sono da trascurare gli apocrifi (per Dante, tuttavia, senecani a tutti gli effetti) De quatuor virtutibus cardinalibus e Remedia fortuitorum: fruiti variamente dall’Alighieri, persino in forma di semplice citazione.

M. von Albrecht, Momenti della presenza di Seneca nella letteratura tedesca

La fortuna di Seneca in Germania va studiata nel contesto europeo; perciò il programma del nostro convegno è perfettamente adatto al problema sotto esame. Difatti vediamo che la letteratura tedesca si trova costantemente sotto l’influsso dei paesi vicini - dell’Italia, dei Paesi Bassi, della Francia, dell’Inghilterra - di modo che è quasi impossibile individuare le singole trame degli influssi subiti. In questo contesto, certe città e regioni servono da ponti tra le nazioni: per esempio, Heidelberg (come città universitaria e sede di stamperie) o Strasburgo (con il suo teatro accademico). Inoltre, osserviamo che questi echi si fanno sentire talvolta con grande ritardo, talvolta anche abbastanza rapidamente. Un terzo fatto importante è la ricca produzione di drammi neolatini in Germania, che incomincia presto e continua per un periodo lungo; fenomeno, questo, causato dalle vicende della religione e delle scuole in Germania. Aggiungiamo che c’è interscambio produttivo fra le edizioni filologiche di Seneca e lo sviluppo della letteratura; il Celtis e il Locher, per esempio, sono nello stesso tempo editori di Seneca e scrittori originali latini. Fecero epoca, nel Seicento, il grande editore fiammingo Justus Lipsius, nonché il bibliotecario di Heidelberg Gruterus, al quale dobbiamo un’edizione degli scritti filosofici di Seneca basata sul codice Palatino. Anche l’attività dei traduttori non è da disprezzare: gli scritti filosofici di Seneca vennero tradotti in tedesco già nella prima metà del Cinquecento (e pubblicati a Strasburgo), il primo dramma senecano, invece, fu tradotto non prima del Seicento dall’Opitz, illustre poeta e scrittore teorico nato in Slesia, un altro centro di produzione letteraria e di scambio fra le nazioni. Per quanto riguarda l’immediato influsso di Seneca sul teatro tragico tedesco del Seicento, per molti avversi affine allo stile neroniano, dobbiamo limitarci a pochi spunti. Nel Settecento, l’autorità di Seneca diminuisce, processo che si osserva nelle tragedie del Lessing e dello Schiller. Il grande Goethe va d’accordo con l’Opitz, studiando le descrizioni senecane dei fenomeni vulcanici (Opitz in un lungo poema sull’eruzione del Vesuvio nel 1631, Goethe nella sua Geschichte der Farbenlehre). Un’altra importantissima trama della fortuna di Seneca si può osservare nelle Massime e Riflessioni di Goethe: Seneca maestro degli autori di aforismi, saggi e scritti morali in Germania. Un ultimo aspetto molto attraente è l’introduzione della persona di Seneca sul palcoscenico. Agli inizi di questa tradizione, c’è la descrizione tacitiana della morte del filosofo, nonché l’Octavia, una fabula praetexta pervenutaci nel corpus Senecanum. Sulla loro scia, nascono molti drammi ed opere musicali, per esempio l’Incoronazione di Poppea del Monteverdi, e finalmente, nella Germania novecentesca, La morte di Seneca di Peter Hacks.

A. Traina, Vittorio Alfieri traduttore di Seneca

Si analizzano le traduzioni (tuttora inedite e conservate nella Laurenziana) che Alfieri nel 1776 fece della Medea e della Thebais (o Phoenissae) per esercitarsi in entrambe le lingue. Più che traduzioni, sono riduzioni e riscritture che antologizzano il testo senecano tralasciando le parti liriche, eliminando o scorciando le narrazioni, le descrizioni, le similitudini, privilegiando dialoghi serrati e monologhi patetici. L’analisi si muove su un duplice piano, interlinguistico nei confronti del latino, intralinguistico nei confronti delle tragedie. Rispetto all’originale la traduzione appare sovrabbondante, al limite della parafrasi, con aggiutne di aggettivi, riempitivi avverbiali, antroponimi, interrogazioni, tutti elementi che si ritroveranno nelle tragedie. Mancano invece procedimenti caratteristici del verso tragico alfieriano come la frantumazione sillabica, le enclisi cacofoniche, gli endecasillabi dattilici che variano il ritmo. Ma non mancano, sia pure in misura minore, versi di energia lapidaria, che portano la firma del futuro trageda (vd. testi).